La sensibilità rispetto ai dati riferiti alle persone ha avuto una fortissima accelerazione, diciamo, nell’ultimo ventennio. In un contesto analogico, poco importava agli individui sapere chi trattasse le informazioni che li riguardavano, in quanto i dati erano pochi e male organizzati. Uniche eccezioni, forse, i dati dei “VIP” (ricordate il grande Fellini in La dolce vita?) ed i dati delle persone coinvolte nei fatti di cronaca (con quello che poi sarebbe stato chiamato il diritto all’oblio). Negli ultimi anni, tuttavia, due fenomeni distinti (sebbene correlati) hanno cambiato completamente la prospettiva. Sto parlando della digitalizzazione e della diffusione della rete internet. I due fenomeni non vanno confusi. Per digitalizzazione, intendo la diffusione di elaboratori elettronici sempre più potenti ed in grado di eseguire operazioni complesse. I computer (uso questo termine in modo ampio e generico) rappresentano un sistema di archiviazione infinitamente più efficiente del vecchio archivio cartaceo, in grado di conservare più informazioni, organizzarle in modo più strutturato, renderle disponibili in modo più rapido e puntuale e, soprattutto, eseguire operazioni matematiche di elaborazione su di esse al fine di ottenere informazioni che potremmo chiamare “derivate”. Il cuore dell’economia digitale è già tutto qui. Il secondo fenomeno, ovvero la diffusione della rete internet rappresenta un fattore di moltiplicazione ed accelerazione sugli effetti della digitalizzazione, ma in buona sostanza non li ha modificati. Attraverso la rete ed il suo accesso diffuso, prima tramite personal computer, poi tramite smartphones, infine tramite dispositivi di ogni tipo (dallo smart watch all’assistente vocale ai tanti oggetti IoT) è stato possibile moltiplicare in modo esponenziale la quantità e qualità di dati personali raccolti, organizzati ed elaborati; è stato inoltre possibile facilitare la comunicazione tra database differenti, e rendere accessibili a più operatori gli strumenti di analisi e valorizzazione dei dati. 

 

In tutto questo processo, risultante dalla complice interazione tra digitalizzazione e diffusione della rete, il ruolo degli utenti è fondamentale: senza la collaborazione degli utenti nel mettere a disposizione i propri dati l’economia digitale non esisterebbe e non prospererebbe. Per questo, il rapporto tra servizio ed utente si è spesso sviluppato su una dinamica attrazione-sfruttamento-ricompensa. Con la promessa di un servizio utile, piacevole, o comunque interessante, il provider invita l’utente a condividere il maggior numero di informazioni possibili (coerenti o meno con il servizio che offre) e restituisce un servizio che l’utente percepisce come vantaggioso. Naturalmente, il flusso informativo va continuamente alimentato, di conseguenza la dinamica attrazione-sfruttamento-ricompensa è tanto più fruttuosa quanto più è a ciclo continuo. 

 

I tempi tuttavia stanno cambiando. Gli utenti cominciano a comprendere che la condivisione indiscriminata di informazioni può rappresentare una minaccia alle loro libertà. Comprendono che la ricompensa che ricevono è spesso poca cosa rispetto al valore dei dati condivisi (ed alle enormi ricchezze da essi generate). I più attenti cominciano a comprendere che il parametro di base va invertito, da una visione incentrata sugli interessi economici (ma non solo) ad una visione incentrata sui bisogni delle persone. Il nuovo paradigma a cui gli utenti più attenti aspirano è bisogno-valutazione-condivisione, laddove è l’utente protagonista che, individuata la necessità (ad esempio, di intrattenimento) ricerca il prodotto informatico più idoneo a soddisfarla (valutando con attenzione anche del livello di minimizzazione, diffusione e protezione dei dati) per poi conferire, in modo consapevole, le informazioni che lo riguardano. 

 

L’economia digitale può funzionare anche in un contesto di piena consapevolezza degli utenti, ma naturalmente richiede da parte di molti operatori la disponibilità a rivedere il loro modello di business (troppo spesso basato su una disponibilità incondizionata degli utenti a condividere e, in alcuni casi, addirittura su “trappole tecnologiche” e/o “trappole psicologiche” in grado di sedurre l’utente poco attento). Questo significherebbe passare da un’economia digitale incentrata sul business, che considera lo user (ed i suoi dati) come strumento per il successo (in una logica win-lose), ad una economia digitale incentrata sul cliente e sulle sue esigenze, capace di generare un profitto per entrambe le parti, con piena trasparenza degli obiettivi (in una logica win-win).  

 

In tutto questo, può avere senso, in termini giuridici e pratici parlare di proprietà del dato personale? Considerando che la proprietà, nell’ordinamento italiano, è il diritto di godere e disporre in via esclusiva di cose (includendo nel concetto di “cose” anche i beni immateriali), mi sembra chiaro che la persona a cui si riferiscono i dati (l’interessato), nella maggior parte dei casi non dispone di questo diritto. La cosa è evidente se ci riferisce agli innumerevoli casi in cui il dato è trattato da un soggetto pubblico per il perseguimento di finalità di interesse pubblico (la gestione dell’anagrafe dei cittadini, il fisco, la giustizia, l’amministrazione, e così via), ma anche negli altrettanto frequenti casi in cui, per poter accedere a beni e servizi è indispensabile il conferimento di dati (firmare un contratto, accedere ad un lavoro, acquistare una polizza assicurativa, scaricare un’applicazione, e così via). Neppure si può dire che chi tratta i dati personali altrui per scopi pubblici o privati (lo Stato, le aziende, i datori di lavoro, i fornitori di beni o servizi, ecc.) sia proprietario dei dati trattati, dal momento che la possibilità di godere e disporre dei dati subisce una quantità di ostacoli in applicazione delle normative di settore (limitazione in base alle finalità, obblighi di trasparenza, limitazione nei tempi di conservazione, ecc.). 

Ogni tentativo di applicare il concetto di proprietà ai dati personali è destinato al fallimento per una serie di motivi: l’immaterialità del dato, la sua duplicabilità all’infinito, il valore pubblico/ collettivo/ sociale dello stesso, ma anche la sua (relativamente recente) capacità di produrre valore economico, lo rendono un insieme indiviso di bene privato, patrimonio collettivo ed asset immateriale senza che nessun soggetto ne possa rivendicare l’esclusività. La chiave di lettura più corretta non è, dunque, quella della titolarità (intesa come proprietà/ possesso) sul dato, ma quella dell’equilibrio tra interessi e tutele, in parte disponibili ed in parte non negoziabili, creato dal legislatore e nel tempo dalla prassi, nell’ottica della salvaguardia delle necessità in gioco, talvolta contrapposte, talvolta in possibile armonia.