Siamo sinceri e diciamo le cose come stanno. In questo modo il mondo non può andare avanti. La popolazione mondiale cresce al ritmo (stimato) di circa un miliardo di persone ogni 12-15 anni. Le risorse naturali si consumano e le relative riserve (o la capacità di rigenerarsi) diminuiscono. Non solo petrolio e carbone, ma anche acqua, suolo, atmosfera, foreste, ghiaccio, biodiversità, vita marina, e così via. A ciò si aggiunga che negli ultimi 30 anni, ampie fasce della popolazione mondiale sono trasmigrate da una situazione di povertà ad uno stato di relativo benessere, aspirando al rango di “consumatori maturi”. Una buona notizia sul piano socio-economico, di sicuro, ma al tempo stesso un’ulteriore minaccia al già fragile equilibrio della sostenibilità.

Che abbiamo un approccio catastrofistico o più ottimista, non possiamo negare la necessità di un intervento sistematico, rapido ed incisivo se non vogliamo mettere a rischio la sopravvivenza della specie umana. Sì, va bene ma… con quale strategia? Su quale dei tre fattori dovremmo intervenire in modo da poter generare un’inversione di tendenza o, per lo meno, un riequilibrio?

Intervenire sulla crescita della popolazione umana sarebbe l’approccio astrattamente più efficace. Siamo troppi, le risorse sono limitate, diminuiamo. Ma volendo escludere il ricorso a guerre mondiali, eventi catastrofali naturali globali, epidemie endemiche, stermini di massa di dimensioni mai viste o altre soluzioni che contrastano con i diritti umani, resterebbe come unica possibilità un piano mondiale per una drastica riduzione delle nascite. Che, oltre a generare immani problemi legati all’invecchiamento della popolazione, sarebbe comunque in grado di dare risultati tangibili, forse, tra 30 o 40 anni. Troppo tardi.

Potremmo decidere di ridurre l’accesso alle risorse. Tornare ad un mondo, neppure troppo remoto nel tempo, in cui l’accesso ai “consumi” è riservato ad un’élite mondiale, ad un numero di persone estremamente ridotto (diciamo, un 10-20% della popolazione). In questo modo la rigenerazione delle risorse sarebbe garantita, ma a quale prezzo? Sarebbe una soluzione ingiustificatamente discriminatoria, antidemocratica e, presumibilmente, decisa dall’alto ed imposta con la forza. Porrebbe enormi problemi sul piano etico-sociale, e genererebbe quasi certamente una serie ininterrotta di conflitti sociali.

Ancora, potremmo optare per quella che alcuni chiamano “decrescita felice”, ma io preferisco chiamare più realisticamente “francescanesimo sociale”. Ridimensionare i nostri standard, accettando uno stile di vita rispettoso dell’ambiente e del prossimo, e fatto di minore disponibilità di beni e servizi, minore mobilità, minore comfort, minore libertà di azione e, inevitabilmente, riduzione di quella che oggi chiamiamo qualità della vita. Partendo, però, da un piano di equità sociale, e condivisione degli obiettivi. Tra tutte le soluzioni prospettate, sembrerebbe essere questa la più adeguata e rispettosa della natura umana. Al tempo stesso, il francescanesimo imposto non ha mai funzionato. Il presupposto perché un’operazione di questo tipo possa sortire effetti è che nasca da una rivoluzione culturale. Che richiede molto tempo. Troppo.

E se la soluzione, invece, fosse tra le pieghe delle cose? Davvero stiamo usando le risorse nel modo più intelligente e più utile a soddisfare i nostri bisogni? Possiamo soddisfare i nostri bisogni in modo altrettanto (o ancor più) efficace utilizzando meno risorse? Molti casi concreti ci dicono di sì. Ad esempio, dove la mobilità urbana è programmata in modo intelligente, la gente arriva prima, risparmia, inquina meno e vive una vita più salutare. Questo vuol dire smart city. La risposta, dunque, potrebbe essere la combinazione tra organizzazione e tecnologia. Unite ad un cambiamento culturale, un cambiamento questa volta possibile, perché basato sulla responsabilità condivisa, non sulla rinuncia.

Organizzazione, tecnologia, responsabilità. Per essere in grado di realizzare ed adeguare sempre, istantaneamente, la miglior combinazione tra bisogno e risorsa, la tecnologia ha necessità di un’immane quantità di dati. Dovrà analizzare i comportamenti dei singoli per intercettare i loro bisogni ed incrociarli, nel modo più efficace, veloce e meno dispendioso possibile, con quelli di altri milioni, se non miliardi, di singoli. Più dati personali ci saranno, maggiore sarà l’efficienza del sistema. Ecco perché non è possibile parlare di sostenibilità senza parlare di privacy.